Intelligenza emotiva: diventare allenatori emotivi

I bambini più equilibrati e sereni, più sicuri di sé, migliori a scuola e anche i più felici, sono quelli con l'intelligenza emotiva più sviluppata, cioè con quell'intelligenza che sta alla base dell'autocontrollo, dell'attenzione verso gli altri e dell'empatia.
È ciò che afferma lo psicologo americano John Gottman in seguito ad uno studio durato diversi anni.
Un altro importante risultato della ricerca di Gottman è che questa intelligenza non è innata, ma si può imparare e gli insegnanti migliori sono i genitori e gli educatori, che possono diventare dei veri e propri allenatori emotivi.
"I nostri studi dimostrano che i figli emotivamente allenati ottengono migliori risultati a scuola, stanno meglio in salute e stabiliscono reazioni più positive con i coetanei, hanno anche minori problemi di comportamento e riescono a riprendersi più rapidamente dopo esperienze negative. L'intelligenza emotiva permette di essere più preparati ad affrontare i rischi e le sfide della vita" afferma lo psicologo.
A partire da questa scoperta Gottman, nel libro "Intelligenza emotiva per un figlio" (Bur), ha messo a punto una guida per insegnare ai genitori a diventare dei bravi allenatori emotivi per i propri figli.
In esso afferma che il genitore deve accettare le emozioni negative dei figli, ma non i comportamenti che da essi scaturiscono.
Il concetto di allenamento emotivo si basa sulla la capacità di immedesimarsi nei figli e di provare empatia nei loro confronti, ma "sfortunatamente l'allenamento emotivo non viene naturale a tutti i genitori solo per il fatto di amare i propri figli".
Il genitore allenatore è quel genitore che riesce sempre a mettersi nei panni del figlio, che nelle emozioni, anche negative, vede un'occasione di crescita e che di conseguenza riesce a gestire i momenti di crisi con maggior pazienza, accettando e ascoltando tutti i sentimenti del figlio, anche rabbia, tristezza, paura, senza minimizzare, sottovalutare o deridere queste emozioni. Attenzione però, essere empatici non significa essere permissivi, significa accettare i sentimenti, ma non i comportamenti, che se sbagliati vanno corretti.
Gottman sostiene che i bambini allenati emotivamente finiscono per comportarsi meglio dei figli di genitori troppo permissivi o troppo autoritari per tre ragioni:
1) I bambini che hanno la sensazione che i genitori li comprendano e siano davvero interessati alla loro vita non hanno bisogno di recitare e fare scene per attirare la loro attenzione;
2) I bambini allenati emotivamente fin da piccoli imparano a calmarsi da soli e riescono a rilassarsi anche sotto stress;
3) Il legame emozionale tra genitori e figli diventa più stretto e i bambini sono più ricettivi nei confronti delle richieste dei genitori, sono più disposti a compiacere che a deludere.
Nella sua guida  Gottman spiega come diventare buoni allenatori emotivi in cinque passi:
1) Prima di tutto cercare di capire se dietro il comportamento sbagliato del bambino c'è un disagio, come una gelosia tra fratelli, un inserimento scolastico difficile, l'aver sentito un litigio tra i genitori o respirato qualche tensione in famiglia.
Quando un bambino è arrabbiato, teso, spaventato, il genitore deve fare uno sforzo per immedesimarsi in lui e capire che cosa può aver generato quest'emozione.
Un bambino di tre anni non può dire "mi spiace mamma di essere noioso e capriccioso, ma l'inserimento all' asilo mi ha molto stressato", è quindi compito dell'adulto sforzarsi di capire cosa c'è dietro.
"Quando ci si accorge di provare quello che prova il bambino" (empatia) si può passare alla fase successiva.
2) Considerare il momento di crisi del bambino come una buona occasione per allenarlo emotivamente.
Quando il bambino scoppia in lacrime, oppure è rabbioso o noioso, anziché innervosirsi e farsi travolgere da emozioni negative, restare tranquilli e pensare a questo momento come a una grande occasione per allenare il piccolo emotivamente.
Un altro atteggiamento assolutamente da evitare è ignorare o sminuire le emozioni negative, pensando che passino da sole o che non siano importanti. I bambini hanno invece bisogno di imparare a capire quello che provano sentendoselo dire dai genitori o dagli educatori e per non crescere con delle insicurezze hanno bisogno di sentirsi compresi.
Il  consiglio di Gottman è imparare a riconoscere le emozioni prima che sfocino in crisi.
Ad esempio se il bimbo è teso per la prossima visita dentistica, è meglio parlare di questa paura il giorno prima della visita e non aspettare la crisi di pianto nello studio dentistico; se un bambino rompe un giocattolo mostrare subito interesse e preoccupazione, così imparerà che si è alleati e collaborativi, in tal modo egli eviterà di fare una sceneggiata.
3) Ascoltare i sentimenti del piccolo senza giudicare né dare soluzioni.
Quando si è ben consapevoli che il momento di crisi del bimbo è un'opportunità per insegnare a risolvere i problemi, allora si è pronti per la fase più importante: l'ascolto empatico. Esso consiste nel sedersi alla sua altezza, parlare in modo rilassato, dedicare del tempo, dimostrare di capire quello che prova ed evitare critiche. La cosa più importante in questa fase è riconoscere il sentimento dei bambini e non dare soluzioni o contraddirli, pensando di minimizzare un problema. Ad esempio: una mamma vede la sua bambina triste e le chiede che cosa ha. La bimba racconta che all'intervallo le sue amiche non giocano più con lei. La mamma d'istinto le direbbe di non preoccuparsi e di giocare con le altre. Ma questo sarebbe come dire che il suo è un problema futile e sminuire l'emozione di tristezza della figlia. Per essere empatica la mamma deve ascoltare bene tutta la storia della figlia,  indagare su quello che prova facendo domande, tipo: "Questo problema ti fa star male, vero?".
4) Aiutare il bambino a trovare le parole per definire le emozioni che prova.
Una fase estremamente importante dell'allenamento emotivo, consiste nell'aiutare i bambini a dare un nome alle emozioni che stanno provando. “Fornire ai figli le parole può aiutarli a trasformare una sensazione amorfa e sgradevole in qualcosa di definibile e quindi con confini ben precisi, come ogni altro normale elemento all'interno della vita quotidiana. La collera, la tristezza e la paura diventano così espressioni comuni a tutti e che tutti sono in grado di gestire” dice Gottman, “il bambino così non solo si sente compreso, ma ora ha anche una parola per definire il suo stato d'animo”. Studi specifici hanno dimostrato che dare un nome alle emozioni ha un effetto rasserenante sul sistema nervoso e aiuta i bambini a uscire più in fetta dalle situazioni di turbamento, quindi per essere bravi allenatori emotivi si dovra' aiutare i piccoli a sviluppare un vocabolario con cui esprimere le emozioni.
Continuando con l'esempio di prima, dopo aver bene ascoltato la storia della bambina, la mamma  può dire "anch'io ci rimarrei male se le mie amiche si comportassero così", "capisco che tu sia triste".
5) Porre dei limiti ai comportamenti sbagliati e aiutare il bambino a trovare da solo la soluzione al problema.
Dopo aver riconosciuto l'emozione che sta dietro a un comportamento sbagliato, dopo essersi messi nei panni del piccolo e averlo aiutato a dare un nome a quello che prova, si dovrà fargli capire che se anche il sentimento e l'emozione negativa sono comprensibili, certi comportamenti sono inaccettabili.
E' infatti compito dei genitori, e di chi si occupa di lui, porre dei limiti a capricci e comportamenti sbagliati o pericolosi.
Ad es: “ Sei infuriato perché il tuo amico ti ha preso il giocattolo. Anch'io sarei arrabbiato. Ma non va bene che lo picchi. Che cosa potresti fare invece?” oppure “Va bene sentirsi geloso di tua sorella. Ma non va bene dirle quelle cose cattive. Non riesci a pensare a un altro modo di affrontare questi sentimenti?”.
Gottman raccomanda che nel riprendere un bambino, il genitore, e noi aggiungiamo anche l'educatore, agiscano in modo fermo, ma senza ledere la dignità del piccolo, da evitare quindi sculacciate e altre punizioni umilianti.
Può funzionare l'esclusione temporanea (allontanare il bimbo finché non si è calmato), ma bisogna farlo con molta sensibilità, quindi senza usare atteggiamenti bruschi o urla. Una volta che si saranno fermate le urla e i pianti del bambino, si dovrà aiutare il piccolo a risolvere il problema, prima di tutto chiedendogli che cosa vorrebbe.
“E' importante, tuttavia, astenersi da un intervento troppo pressante. Se si vuole veramente che il proprio figlio si impadronisca delle conclusioni, lo si dovrà incoraggiare a generare da solo le sue idee”.
Per aiutare un bambino piccolo a trovare da solo la soluzione al problema che lo affligge, si potrebbe inscenare un gioco di fantasia, come usare delle bambole e sceneggiare le due versioni di una soluzione (quella giusta e quella sbagliata). Ad esempio: due bambole possono essere coinvolte nella lite per un giocattolo. Nel primo scenario, la bambola afferra il giocattolo senza nemmeno chiederlo. Nella seconda, la bambola chiede di poter prendere il gioco e propone all'altra bambola di giocare insieme. Con ragazzi più grandi ci si può mettere insieme a pensare diverse soluzioni, anche scrivere una lista su un foglio e poi depennare quelle che a lui non piacciono. Una tecnica per aiutare a visualizzare una soluzione è stabilire dei rapporti tra trionfi passati e futuri: “Gli si potrebbe ricordare un obiettivo già raggiunto e poi incoraggiarlo a visualizzarlo, cercando di ottenere qualcosa di nuovo con un successo analogo”.
Ad esempio, una bambina che non va volentieri a scuola perché non si trova bene a giocare con una compagna, le si potrebbe dire: “Vedo che questo problema ti fa stare male... Ti ricordi qualche altra volta che ti sei sentita così?”. La bimba potrebbe rispondere: “Sì, quando un compagno mi tirava i capelli”. A questo punto le si potrebbe chiedere che cosa aveva fatto in quella situazione, in questo modo la bimba visualizza come aveva risolto con successo quel problema e ciò l'aiuta a trovare una soluzione analoga.
Una volta che un bambino propone una o più soluzioni, l'adulto lo aiuterà a valutare qual'è quella giusta chiedendogli: “Pensi che funzionerà?”, “Come pensi di sentirti dopo? Come si sentiranno gli altri?”.  Utile è raccontare come noi adulti abbiamo affrontato problemi simili da piccoli e che cosa si è imparato da quella esperienza.
Infine se il bambino propende per una soluzione per noi sbagliata, ma comunque innocua, fargliela pure mettere in pratica, così se fallirà lo si incoraggiera' a saggiare un'altra opportunità.
La soluzione sbagliata di un problema aiuta i bambini a analizzare i loro errori e i piccoli imparano molto dai loro sbagli.p-

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